Scorci di vita Veneziana: la porcellana e altre curiosità – Seconda e ultima parte
Ieri vi ho raccontato di come la porcellana sia arrivata a Venezia grazie a noi donne e alla nostra cipria e oggi vi racconterò delle occasioni in cui si utilizzava questo materiale così pregiato ed elegante.
I grandi pranzi erano un fatto sociale: il cibo, di per sé stesso, non era importante, ciò che contava era come veniva presentato.
Cavolo, avrei avuto un gran successo ai tempi, visto che non sono proprio una brava cuoca, ma gioco a copiare le ricette degli altri. Ahahah!
In occasione della visita di qualche importante personaggio, il governo della Serenissima andava sì a riceverlo, in pompa magna, col Bucintoro (la barca del Doge), ma poi delegava una nobile famiglia che doveva accollarsi il piacere e, soprattutto, l’onere dell’ospitalità.
Pare che un principe di Galles, al momento di andarsene, abbia detto a chi lo aveva ospitato, che non avrebbe potuto ricambiare l’invito perché gli sarebbe stato, economicamente, impossibile competere.
Poverino, ma non li vendevano dei piatti decenti in Galles?!?
La tavola, per i pranzi quotidiani, era coperta con tovaglie di lino o di cotone, mentre per un pranzo di gala un telo di seta veniva ricoperto da un copritovaglia in pizzo (di Burano o per i più raffinati, del Belgio).
Io per i pranzi quotidiani uso le tovagliette all’americana di Superman o al massimo quelle con i velieri, anche se mio marito vorrebbe sempre la tovaglia bianca (grazie cara suocera per come hai abituato bene tuo figlio! Grrr).
Per le cene importanti, invece, uso una fantastica tovaglia color panna che sembra fatta di stoffa normale, e invece è fatta di una stoffa impermeabile che se per caso si macchia, si può lavare con la spugnetta senza doverla mettere tutte le volte in lavatrice: adooorooo.
L’uso del tovagliolo era diventato corrente e, per pulirsi bocca e mani, non si usava più la tovaglia.
Eh sì, prima la tovaglia era come un gigante tovagliolo a disposizione di tutti, blaaaaa.
Nei pranzi familiari, l’etichetta non era certo formale, ma libera e a volte pure un pochino troppo libera. Pensate che spesso i “gentiluomini” (gentilissssssimi), con la complicità della luce soffusa delle candele, si slacciavano le aperture laterali dei loro pantaloni e li calavano per non rovinarne il prezioso tessuto mentre mangiavano (le sedie avevano le sedute in paglia di Vienna e spesso non avevano i cuscini).
Tres chic! Secondo me lo facevano sperando che passasse qualcuna sotto il tavolo e con la penombra si immaginasse le cose più grandi di quello che erano… Hihi.
Per quanto riguarda le posate: il cucchiaio era usato da sempre per le zuppe mentre il coltello veniva soprattutto utilizzato per tagliare la carne.
A quanto si dice la punta arrotondata, che distingue il coltello da tavola dal pugnale, fu voluta dal cardinale Richelieu per impedire ad un commensale di pulirsi i denti col coltello.
E io che mi lamento quando in certi ristoranti vedo ancora gli stuzzicadenti sul tavolo!
La forchetta, invece, entrò nell’uso comune assai tardi perché considerata effeminata.
Che giramento di maroni: gli uomini già ai tempi erano “raccomandati” e potevano fare un sacco di cose che a noi donne non erano permesse.
Anche oggi, se ci pensate, se a un uomo, tra le mura domestiche, scappa una “puzzetta” o un “ruttino”, secondo loro non è così grave, ma se scappa a noi diventa una tragedia!
Vabbè, torniamo a parlare di cose serie.
I piatti da portata non erano di grandi dimensioni perché, appoggiati, sulla tavola, accanto ai commensali servivano per due sole persone.
Venivano posizionati in giro anche i rinfrescatoi ossia grandi coppe che, riempite di ghiaccio, erano usate per raffreddare bottiglie e bicchieri.
La manifattura della porcellana Veneziana raggiunse altissimi vertici di gusto e raffinatezza nella fabbricazione dei servizi da caffè e da cioccolata.
La varietà del decoro era vastissima, anche se, per snobismo o per moda, i servizi con stemma di famiglia venivano spesso commissionato a Meissen.
I Veneziani amavano far servire caffè e cioccolata in tazze, tazzine o ”cicare” (tazze senza manico simili a quelle orientali) che erano basse o alte a campana, più simili ad un bicchiere ed inserite in un supporto di metallo dorato per evitare le scottature.
Si arrivò al punto di offrire il caffè mascherandosi da turchi.
Ci sono infatti molti quadri e stampe di grandi maestri, come Longhi e Tiepolo, che mostrano la società Veneziana nell’atto di offrire e consumare queste bevande in diverse occasioni sia pubbliche che private.
Per finire vi racconto una storiellina divertente che ha per protagonisti una moglie infedele, un amante, un marito comprensivo ed una tazzina di caffè.
La scostumata, approfittando della lontananza dello sposo, invita l’amante a casa.
Mentre stanno facendo “body-building” il marito cornuto torna all’improvviso e li fa sobbalzare.
Lo sposo entra, ma il velocissimo amante ed i suoi abiti sono già sotto al letto.
La sposa sorride, seducente, e lui la raggiunge a letto…
Al mattino, come sempre, la Colombina di turno (la filippina di oggi) porta ai padroni il caffè e complice probabile della signora, si guarda attorno spaventata e curiosa.
Il padrone rimprovera la sua goffaggine si fa servire il caffè, poi, con un rapido movimento, allunga la tazza sotto al letto, chiedendo, ironicamente: ”Con o senza zucchero?!?”.
Adoro mio zio Agostino: senza di lui non avrei mai saputo tutto ciò e soprattutto non mi sarei fatta quest’ultima grassa risata!
Barbara
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